Massa e le elezioni. Una strategia per sopravvivere.

La nostra è una città politicamente strana. E’ come se vivesse costantemente un desiderio diffuso di partecipazione politica, ma allo stesso tempo non riuscisse ad individuare luoghi, momenti, spazi adatti in cui concretizzare questa voglia. Associazioni, circoli, collettivi (ed anche qualche residuo nelle forme di partito classiche) esprimono una miriade di idee, di iniziative. Un insieme di conoscenze diffuse e di intelligenze all’opera. Quasi sempre sotto traccia, un tantino autoreferenziali.

Poi, nel momento delle elezioni, è come se questa voglia di partecipazione esplodesse, intrecciandosi con i professionisti della politica di palazzo, senza rendersi conto che giocare in un tavolo truccato non ha senso, anche se si possiedono carte buone.

Il problema di una parte determinante delle realtà politiche che auspicano un mondo differente nella nostra città (riproponendo in toto ciò che accade in gran parte del nostro paese), è quello di non trovare terreni alternativi alla partecipazione elettorale per contare e per incidere nel proprio tessuto sociale. Sembra che l’unica possibilità che abbiamo sia quella di rivolgerci al palazzo. Eppure le condizioni per assumere su di noi le sorti della nostra vita sembrano esserci tutte, oggi più che mai: la finanza ha pervaso le nostre vite, spossessando la politica del suo ruolo originario; la crisi sta erodendo i nostri spazi, investendo i nostri diritti, a partire da quello alla salute, al lavoro, alla cultura.

Occorre, insomma, delineare uno scenario d’azione possibile, anche e soprattutto per cominciare a prospettare strategie collettive di resistenza di fronte al crollo dello Stato sociale: micro-comunità capaci di farsi carico dei problemi dei più deboli e pronte a mettere in campo sperimentazioni di autoreddito, di mutuo socorso, di sostegno reciproco. Ma per realizzare tutto questo vi è la necessità di fare un salto logico e politico determinante:

bisogna, cioè,  tornare a parlare dell’Occupazione di uno spazio come luogo di sperimentazione collettiva.

 E’, a mio parere, questo il nodo determinante per delineare un’altra politica per la nostra città. Occupare significa di fatto mettere in campo un’azione comune, per elaborare un linguaggio plurale, per la risoluzione di una miriade di problemi. Significa sperimentare insieme. Perchè è solamente da questo “insieme” conflittuale che può partire la riappropriazione della politica.

Occupare significa mettersi in gioco e combattere per noi, fra noi.

Occupare è cominciare a pretendere il pane e le rose, ma in una maniera differente: facendoci fornai per cuocere il pane, facendoci fiorai per coltivare le rose.

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Federico, sua madre e la barbarie.

La prima reazione è d’orrore, la seconda di rabbia, la terza di consapevolezza. Occorrono tre momenti per comprendere ciò che è successo. Ma solo nel terzo, finito lo sgomento della sorpresa, ecco la capacità di mettere le cose al giusto posto.

I fatti sono noti. I poliziotti che hanno ucciso Federico Aldrovandi sono stati condannati anche in cassazione. E la loro reazione e quella del loro ambiente, si indirizza verso la madre. Sono parole atroci, vergognose, aberranti: “cucciolo di maiale” è definito Federico. La madre è offesa, nella propria figura genitoriale, nel proprio ruolo di donna, nel proprio dolore.

Come dicevo, orrore e rabbia. Ma poi occorre riflettere un attimo e non farsi sorprendere dall’emozione del momento. Questa mancanza di umanità, di empatia o anche semplicemente di prudenza è poi così strana? E’ l’atteggiamento folle delle solite mele marce? In Italia i casi di persone morte nelle mani delle forze dell’ordine sono moltissimi, siano essi detenuti o semplicemente “fermati”. E la cosa più vergognosa è che in queste situazioni scatta un immenso meccanismo di copertura dei responsabili. L’apparato repressivo dello Stato non si processa. In queste situazioni borderline scatta, in maniera diffusa e comprendendo sostanzialmente le varie anime democratiche, l’indignazione e la richiesta di giustizia. Ma scatta anche una forte necessità di affermare il bisogno di non generalizzare. “Non sono tutti così”, “E’ l’eccesso di pochi esaltati”. Ecc.

Fondamentalmente ritengo superficiali, sbagliate e perfino fascistoidi le generalizzazioni. Eppure…

Eppure qui entra in gioco qualcosa d’altro. Qui non si tratta di dire che tutti i membri delle forze dell’ordine sono cattivi, violenti, o fascisti. Si tratta di osservare una sorta di trasformazione antropologica subita da chi indossa una divisa. Un senso permanente di impunità, un odio per l’altro nel suo complesso, e, non ultima, una feroce misoginia che portano a quel diffuso senso di ferocia. E’ come se entrando in quel contesto si perda di vista completamente tutto il resto, si acquisisca un modo di pensare coercitivo e liberticida, violento e prevaricatore.

Ma negli ultimi casi di omicidio delle forze dell’ordine c’è un qualcosa in più. C’è il rifiuto di accettare che a prendere parola contro l’accaduto per  ottenere giustizia, sia una donna, sia essa madre o sorella. C’è il fastidio nel vedere che una figura femminile sia soggetto protagonista nella ribellione contro le prevaricazioni. E’ questo il fattore che più infastidisce i poliziotti che hanno ucciso Federico. Loro artefici e vittime di un mondo di cameratismi e prevaricazioni, di linguaggi tutti al maschile, non riescono a sopportare il coraggio di Patrizia Aldrovandi, di Ilaria Cucchi, di Cira Antignano e di tutte le altre che hanno avuto il coraggio di opporsi. E’ questa l’alterità che dà loro più fastidio. Perchè è un’alterità non classificabile nei tranquillizzanti meccanismi dell’odio per un categoria.

Grazie a Patrizia Aldrovandi e al suo coraggio. Le dobbiamo molto.

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“10 x 100 anni di carcere”. Una campagna.

Per la mia generazione Genova 2001 è stata tutto.

E’ stata come un romanzo di formazione in cui ti ritrovavi non dalla parte del lettore ma da quella del protagonista, dell’antagonista, della comparsa, del pubblico.

Hai presente quando passi anni a raccontarti la cattiveria del sistema e poi improvvisamente la cattiveria non è più uno scenario immaginato, è reale come il sangue, il sudore, il fumo.

Genova 2001 ha avuto un grande merito. E’ stato il primo momento in cui una narrazione collettiva del movimento nel suo complesso ha messo in discussione il racconto ufficiale fatto dal potere. Non che la storia dell’Antagonismo prima non avesse prodotto narrazioni straordinarie in contrapposizione ai racconti ufficiali. Ma in quest’occasione, anche per la diffusione dei mezzi tecnici di ripresa, c’è stata una presa di parola collettiva, che è partita dai giorni stessi della rivolta ed è andata avanti per anni.

Di fronte a tutto questo e per molte altre ragioni, lo Stato non ha perdonato. E con la protervia che solo il potere può avere, ha promosso i massacratori e individuato i capri espiatori. Come nel Cile di Pinochet.

Quella che Amnesty International ha definito “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, necessitava di un’auto-assoluzione del sistema repressivo nel suo complesso e della condanna di 10 persone a oltre 100 anni di carcere.

Non si deve alzare la testa, sia da monito.

Ora spetta nuovamente a noi. Rimettere in piedi la nostra narrazione, tornare a raccontare la verità di quei giorni. Denunciare i veri colpevoli e sostenere i compagni. Il Movimento ha immediatamente compreso l’urgenza e la gravità della situazione e ha messo in piedi una campagna, che si compone di un appello e di una petizione, attraverso la quale poter chiedere l’annullamento della condanna per devastazione e saccheggio per tutti gli imputati e le imputate.

Trovate la campagna al sito:

10×100.it

Vi chiedo di visitare il sito e di firmare la petizione.

E per quanto riguarda noi, abbiamo un’urgenza collettiva: tornare a raccontare quei giorni, con la stessa rabbia e la stessa purezza.

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Quelle che seguono sono alcune riflessioni in ordine sparso che ho scritto negli ultimi anni e che ho raccolto nel blog.

Buona lettura.

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Un 13 Febbraio critico (12/02/11)

Il 13 febbraio anche a Massa, come in tutta Italia, ci si mobilita per reagire alla putrescenza di un sistema politico che si afferma inscenando una battaglia sui corpi delle donne.

L’appello su cui la mobilitazione è stata convocata porta però a confondere, secondo me, le vere responsabilità, innescando un perverso pensiero di condanna morale di tutti quei comportamenti sessuali socialmente non conformi.

Ritengo, al contrario,  che individuare nelle donne che accettano questo scambio le vere responsabili della questione, sia sbagliato e pericoloso. Per trovare le vere responsabilità bisogna secondo me entrare  nel campo della biopolitica, cioè in quella affermazione sistematizzata di potere che le società disciplinari esercitano sui nostri corpi. Ebbene, credo che le

escort che cedono la propria intimità in uno scambio perverso di sesso-potere, non siano così distanti dai lavoratori di Mirafiori che cancellano la propria dignità sacrificandola su uno scambio altrettanto perverso: quello fra schiavitù e morte. Altre battaglie distruttive, altrettanto pornografiche si giocano sui corpi martorizzati dei migranti o su quelli recalcitranti (e quindi ancor più da colpire) degli studenti.

E’ la nuova situazione di proletari la nostra. Che non essendo più in grado di costruire una nostra coscienza di classe ci limitiamo a cedere le nostre vite al sovrano e ai suoi vassalli, di destra e di sinistra. Roma 14 dicembre ha rappresentato la prima ribellione generalizzata a tutta questo. Vorrei che la giornata del 13 febbraio possa rappresentare un secondo momento di ribellione.

E se Berlusconi è forse l’autobiografia della nostra nazione, è ora il momento di scrivere altre pagine, di riscatto e di assunzione in prima persona della responsabilità. Sui nostri corpi è esercitato un potere, dai nostri corpi rovesceremo questa situazione. E non passando da misere urne e delegando a personaggi di dubbio gusto.

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L’Utopia possibile (19/04/11)

Qualche tempo fa, doveva essere se non ricordo male Gennaio, decidiamo di organizzare un’iniziativa sulla Palestina. L’idea è quella di collegarci telefonicamente all’interno del dibattito con Gaza e in particolar modo con Vittorio Arrigoni.

Perchè lui? Beh, perchè sono rimasto colpito dai suoi resoconti dalla striscia durante la vigliacca operazione israeliana, denominata “Piombo Fuso”. Sono rimasto colpito dalla crudezza di quei racconti, ma anche dall’umanità che traspariva e che veniva riassunta così mirabilmente con la frase di chiusura “Restiamo Umani”. Ci sentiamo con Vittorio durante la settimana precedente l’iniziativa, sia via mail e sia via sms. Lui si dimostra contento e fa trapelare un entusiasmo che contagia e che riassumo nell’appellativo di “Hermano” con cui mi chiama. Poi arriva il sabato. All’orario stabilito proviamo a chiamare Vittorio, ma nulla. Dall’altra parte del telefono non risponde nessuno. Proviamo e riproviamo ma niente. Verso fine serata mi arriva un messaggio in cui Vittorio ammetteva di essersi dimenticato.

Ho ripensato a quella vicenda e me lo sono immaginato lì, a passare una serata con gli amici. Lui,  l’Occidentale a Gaza, mio coetaneo, con i miei stessi orecchini e i miei stessi tatuaggi in una terra non così avvezza alle alterità estetiche.

Giovedì sera quando è arrivata la notizia del rapimento e ovviamente ancor più venerdì mattina dopo il ritrovamento del cadavere di Vittorio, mi son sentito come dopo aver ricevuto un pugno in faccia. Quando muore un compagno ti senti quella morsa allo stomaco che ti prende…. ma questa volta di più.

Perchè di più, mi sono chiesto? Solo per quella vicenda della mancata intervista che così mirabilmente dimostrava in maniera involontaria la sua umanità? Solo per quel senso di affetto che hai verso un giornalista che leggi quotidianamente e che ti diventa familiare come fosse un amico? No, non trovavo la risposta.

Poi ieri, in macchina stavo ascoltando Radio Popolare. Durante il GR viene intervistata la madre di Vittorio. Ne parla con riconoscenza e trova un aggettivo mirabile per definirlo: concreto. Vittorio era un ragazzo concreto.

Ecco il motivo, mi sono detto. Vittorio Utopia Arrigoni aveva quella concretezza dell’agire politico che noi innamorati dell’idea di cambiare il mondo non abbiamo mai.

Addio Vik

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Mostra “Genova 2001. Memoria personale, memoria collettiva” (19/07/05)

“Sono passati quattro anni e potrebbero esserne passati venti, tale è la percezione che si ha di un evento che ti segna. Sono gli scherzi della memoria che mette a fuoco un momento, uno sguardo, uno scontro e ne deposita altri, miriadi di altri come se imperterrita filtrasse secondo una regola che non comprendi.

Sono passati quattro anni ma sembra ieri, perché ci sono passaggi della vita che ti marchiano, con il loro colore, il loro calore.

Nelle contraddizioni di cui tutti noi siamo vittime, il G8 di Genova rappresenta insieme l’apice e la caduta, la nascita e la morte, il volo e lo schianto.

Eppure di quei giorni assieme drammatici e splendidi custodiamo, ciascuno a proprio modo, un ricordo indelebile che travalica la memoria personale e paradossalmente va a comporre quello straordinario mosaico che prende il nome di memoria collettiva. Perché, finalmente, dopo Genova spariva la zona grigia e si innalzava la necessità di una scelta. Perché o eri con noi o eri con loro.

E noi eravamo belli, eravamo forti, fino a covare l’illusione di essere invincibili.”

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Mie considerazioni sulla giornata di ieri, 15 ottobre. (16/10/11)

Con ancora negli occhi il fuoco dei simboli del capitale e nella gola il sapore acro dei lacrimogeni, provo a buttar giù sotto forma di elenco alcune piccole considerazioni sulla giornata di ieri, 15 ottobre 2011.

Una giornata globale di mobilitazione contro il capitale ha avuto a Roma il suo apice con scontri di una violenza inaudita e per certi versi sorprendente. Un gruppo nutrito (diverse migliaia) di manifestanti è scesa in piazza con l’obiettivo dello scontro fisico. Ho visto uno spezzone gigantesco determinato a trasformare la consueta sfilata della “gauche plurielle”, a posteriori sempre elogiata come si esalta un orso bianco in uno zoo, in una presa di parola inedita, scioccante, dissacrante. E se questo parola non era un discorso articolato in cui elencare, come in una stanca litania, le nostre richieste, se questa parola emergeva solamente come un incomprensibile suono gutturale, per questa volta è sufficiente così. Uno “sgrunt” urlato ai quattro venti, incomprensibile ai più, ma ben chiaro a chi come noi è costantemente vittima di ogni politica.

Non sto ad ammorbare su chi oggi esercita la reale violenza, su chi la subisce giornalmente, su chi è marginale, in una società in cui stare oltre i margini è diventata consuetudine. Non sto neppure a sottolineare come siano false e stancamente giustificatorie le considerazioni secondo cui quella di Roma era una sparuta minoranza che ha agito contro la maggioranza, cancellando di fatto i temi proposti dal Movimento nel suo complesso.

Quello che voglio affermare è che anche in Italia ieri si è rotto un tabù: il tabù della violenza come male supremo, la necessità del “dover dire” anche quando non c’è nulla da dire. Questo mondo è irriformabile e chi ne subisce le storture sempre più terribilmente, ha solo la possibilità di abbatterlo per disegnare un’alternativa possibile. E se ieri questa alternativa non si è per nulla intravista, se quello che è emerso è solo un riot discriminatorio e nichilista è perchè non si prova a leggere la realtà dietro le nebbie di una cultura del potere che ci ha pervaso.

Molte persone, molte di voi, vanno dicendo da tempo ( in maniera a mio parere errata) che in Italia dormiamo e che accettiamo tutto senza ribellarci. Ebbene, ora che  il 15 ottobre la ribellione è stata finalmente praticata, cosa avete da dire? Molte altre, inoltre, vanno elogiando le rivolte di altri stati ( dalla Grecia alla Francia, dai Paesi Arabi agli Stati Uniti), salvo poi prendere fortemente le distanze da ogni istanza minimamente ribelle in Italia. E’ probabilmente ora di uscire dall’ambiguità di dire che siamo impotenti di fronte ai giochi di potere del palazzo e poi di fronte al palazzo in fiamme scateniamo la caccia al colpevole, al violento, al riottoso.

Molte altre cose ho visto e vorrei dire e raccontare.

Ma voglio chiudere con questa immagine: in pullman verso Roma, all’andata, di fronte al consueto clima da allegra scampagnata di gitanti fuori porta della domenica, mi son sorpreso a pensare all’inutilità delle manifestazioni/sfilate in cui crediamo di aver “comunicato” le nostre istanze di nuovo mondo, salvo poi venir schiacciati dal monopolio mediatico-semantico del giorno dopo. Ebbene al ritorno finalmente non la pensavo così.

Abbiamo fatto un passo avanti o uno indietro per cambiare questo mondo? Non lo so. Ma credo che è stata messa in atto una progressiva  trasformazione dell’immaginario collettivo. E mi sembra abbastanza

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Ieri, 17 Dicembre (18/12/12)

Quando cammino nelle manifestazioni, penso.

Si, mi piace perdermi nei cortei e riflettere. Forse perchè mi sento protetto, coccolato, invitato a pensare.

Ieri a Firenze ho potuto farlo mirabilmente, accompagnato dai canti di preghiera senegalese.

E’ stata una manifestazione straordinaria. Nel senso che è andata ben al di là dell’ordinarietà dei nostri cortei tradizionali, fin dalla partenza da Massa: tantissime persone, tantissimi senegalesi. Tutti i compagni di una vita, giovani e meno giovani.

E poi l’arrivo a Rifredi e il treno che si svuota. E la gente che comincia a scendere e non finisce più. Tante facce senegalesi sorridenti, tese, arrabbiate, solari. Tante facce italiane, forse un po’ stranite, ma felici, estremamente felici.

Firenze è straordinaria in queste situazioni. Accoglie il corteo, vi partecipa, comunica e ascolta. Non si merita un sindaco come Renzi.

Esiste un proletariato migrante che può sconvolgere la politica italiana. Che porta la rivoluzione possibile direttamente a casa nostra. Che sconvolge le nostre pratiche ormai stanche, che osa.

Il potere comincia a capirlo, lo teme fortemente: e quindi o lo reprime o cerca di inglobarlo. Ma anche noi, movimento antagonista, ne subiamo la novità dirompente. Questo proletariato, etnico e interetnico allo stesso tempo, comincia a presentarci il conto. Ed è un conto salato per le nostre coscienze politiche: ci dice che la rivolta è possibile semplicemente perchè ha già cominciato a praticarla, senza paura di equilibri politicanti da rispettare. Ci dice che noi siamo rimasti indietro e che se vogliamo stare al passo, dobbiamo abbandonare le titubanze delle alchimie classiche e le esitazioni del “vorrei ma non posso”.

Sono contento.

Grazie Senegal d’Italia, piango anch’io i tuoi morti.

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Riflessioni sulla giornata di ieri, una bruttissima faccenda di fascismo e repressione (12/02/12)

Provo a buttare giù alcune riflessioni sulla giornata di ieri, che ho vissuto fino a una cert’ora.

 

Innanzitutto è scesa in piazza un’organizzazione fascista a tutti gli effetti, un’organizzazione che continua in varie parti d’Italia a scatenare l’odio contro gli ultimi e a proporre falsi rimedi, fatti di violenza ed esclusione. Ma questa è un’organizzazione fascista anche nello stile, nei comportamenti, nei modi d’essere. Ieri l’ha dimostrato in ogni frangente. Non è questo, a mio parere, un particolare di secondo piano: la dinamica dell’apparire sconfina nella realtà sostanziale e dimostra a tutti gli effetti la natura di questo movimento. Natura che traspare anche dalle “armi” in possesso di questi: bastoni, catene, caschi, spray al peperoncino. Tutti strumenti pronti ad offendere.

 

Secondo punto, la gestione dell’ordine pubblico. Ciò che è accaduto sotto i miei occhi ha dell’incredibile: è come se fosse stato tutto premeditato. Lo scontro al semaforo delle poste del primo pomeriggio è avvenuto in maniera del tutto prevedibile e preventivabile. E’ come se ci fosse stata una pianificazione a tavolino per permettere il contatto e poi reprimere gli antifascisti. Successivamente è successo un fatto ancora più grave (aggressione violentissima da parte di un gruppo di fascisti) su cui però non voglio ora entrare per limitarmi a parlare di ciò che ho vissuto.

 

Terzo punto, l’informazione super partes. Ancora una volta quotidiani e televisioni locali mettono in scena una ricostruzione degli eventi catalogabile alla voce “opposti stremismi”, togliendo di fatto, dal dibattito pubblico, il tema chiave della vicenda e cioè  la legittimità da parte di una città di opporsi a delle organizzazioni che fanno dell’odio contro qualsiasi tipo di alterità la loro ragion d’essere.

 

Quarto elemento, l’informazione embedded, cioè le veline delle organizzazione di estrema destra, Tele Toscana Nord e Quotidiano Apuano. Sono a tutti gli effetti composte da militanti di estrema destra e forniscono una visione della vicenda vergognosa e scandalosamente di parte. Omettono le responsabilità e forniscono in pasto alla gente una versione fasulla e ridicola. A mio parere deve scattare una presa di posizione nei confronti di questi due mezzi di (dis)informazione da parte di tutte le realtà sinceramente democratiche e antifasciste: boicottaggio concreto nel fornir loro comunicati e quant’altro.

 

Quinto ed ultimo punto, il più importante, la militanza antifascista. Occorre a mio parere una forte riflessione nell’antifascismo nostrano sulle nostre pratiche e sulle nostre capacità di incidere nel tessuto sociale, politico e culturale della nostra città. Non si tratta qui di privilegiare un comportamento od un altro ma piuttosto di individuare tutti assieme quali siano i percorsi e le iniziative migliori per contrastare il fascismo, da quello istituzionale a quello delle organizzazioni più becere e schifose.

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