Contro la meritocrazia (del Capitale)

La meritocrazia è una forma di governo dove le cariche amministrative, le cariche pubbliche, e qualsiasi ruolo che richieda responsabilità nei confronti degli altri, è affidata secondo criteri di merito, e non di appartenenza lobbistica, familiare (nepotismo e in senso allargato clientelismo) o di casta economica (oligarchia).

Uno sguardo veloce alle cronache dei nostri tempi ci porta a verificare un problema molto grave diffuso dovunque, ma con alcune specificità italiane che ne amplificano la gravità. Si tratta del fatto che alcune caratteristiche ben lontane dalle capacità personali, sono fondamentali per poter emergere in molti campi, a cominciare da quelli amministrativi. “Qualità” come le parentele che puoi esibire, il tuo aspetto fisico, la propensione alla sopportazione delle angherie sembrano imporsi come criterio di selezione in moltissimi ambiti.

Contro questa gravissima tendenza da più parti viene introdotto il concetto di “meritocrazia”, come necessità di adottare nuovi criteri di selezione per determinare le graduatorie di inserimento nei vari campi. Detta così, e tenuto conto delle gravi storture del nostro sistema, sembra una misura logica e necessaria. Io vorrei al contrario metterne in evidenza alcune problematiche e soprattutto sottolineare l’uso che ne viene fatto dal Capitale e dalle classi dominanti.

Innanzitutto una considerazione che deriva in primo luogo dal mio lavoro in ambito sociale nei contesti disagiati e che emerge anche da una visione della società nel suo complesso: introdurre la “gara del merito” è fondamentalmente ingiusto e politicamente grave. E’ come focalizzarci sull’arrivo di una corsa nella quale la linea di partenza è completamente diversa da soggetto a soggetto. Gli adepti di quella follia culturale chiamata Darwinismo sociale sono fondamentalmente i primi sostenitori di una concezione di questo genere: nella “Struggle for life and death” il merito è determinato dalle condizioni di partenza.

Ho avuto l’immensa fortuna, come dicevo, di operare un lavoro come educatore in contesti multiproblematici. E ho avuto la fortuna di conoscere ragazzi eccezionali, con l’unica colpa di partire infinitamente più indietro degli altri. Ebbene, in questi mondi ti rendi conto di come il concetto di Meritocrazia sia completamente fasullo, di come l’intelligenza sviluppata sia indirizzata verso contesti “altri” ben lontani da quelli nei quali si dovrebbe tener conto del presunto Merito. Il fatto di partire indietro si concretizza in primo luogo in una gamma assolutamente limitata di orizzonti possibili.

Ma c’è un problema ancor più grave ed emerge dal linguaggio delle classi dominanti. Ministri e imprenditori, uomini di potere di tutte le risme si riempono la bocca con il concetto di “Meritocrazia”, apparentemente con l’intenzione di incidere sulle storture dei criteri di selezione. Più concretamente con la volontà di cristallizzare, anche a livello semantico una differenziazione sociale imposta, da mantenere forzatamente. Il riscatto sociale delle classi subalterne è stato il motore della storia. L’aspirazione all’uguaglianza ha mobilitato milioni di persone ed è fondamentalmente il pericolo sociale più concreto per il Capitalismo e per i suoi “cani da guardia”. Introdurre, come necessità culturale, il “merito” come criterio selettivo, è la maniera migliore per arginare ogni spinta al riequilibrio sociale. “L’operaio che voleva il figlio dottore” non lo deve avere non soltanto perchè c’è corruzione a livello di scelta, ma anche e soprattutto perchè deve passare la concezione che non possa essere concettualmente una sua aspirazione.

Il problema delle gravissime storture nell’inserimento in ruoli sociali di rilievo, tuttavia resta. Io intendo solo attaccare il concetto di “Meritocrazia” che si sta imponendo. E chiudo con una provocazione: siamo sicuri che, in un sistema sociale che ha fatto dell’ingiustizia il suo concetto cardine, aspirare ai livelli più elevati della catena sociale, sia politicamente corretto? O piuttosto non contribuisca a togliere energie ai processi di trasformazione?

Sono fiero di rimanere lavorativamente nei bassifondi, di sporcarmi quotidianamente le mani nelle vicende degli “ultimi”, di contribuire, nel mio piccolo, a portare l’idea del riscatto sociale e collettivo. L’unico Merito che mi riconosco è la possibilità di accompagnare ragazzi e ragazze verso una possibile appropriazione del proprio destino, e che questo destino sia il più ampio possibile.

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Noi compagni e la violenza sulle donne

E’ in corso un’assemblea antifascista, presenti molti compagni di realtà politiche cittadine. Prende la parola una compagna. Il suo intervento è disturbato, denigrato, accompagnato da fastidiose risa. Dopotutto è una donna e qui si parla di antifascismo militante.

Le straordinarie compagne e sorelle di Femminismo a Sud, come tappa della loro campagna contro la violenza sulle donne hanno chiamato tutti quanti ad esprimersi su questo tema, con una frase che rappresenti questa infamità. Una presa di posizione collettiva contro un fenomeno drammaticamente diffuso e pericolosamente taciuto.

Riflettendo su questa iniziativa, pensavo a quanto il problema di genere sia spesso assente nelle nostre discussioni politiche, nelle nostre iniziative e a quanto sia, al contrario, strettamente intrecciato con l’antifascismo, la società che vorremmo e il mondo nuovo che auspichiamo. E all’interno di tutto questo, quanto la violenza sulle donne sia un tema cui gli uomini, anche i compagni, non considerino proprio terreno di mobilitazione e lotta politica.

Parto da una considerazione. La violenza sulle donne riguarda anche gli uomini e li riguarda in maniera feroce, pervasiva, piena. Ci costringe a farci domande, a interrogarci, su ciò che siamo come soggetti politici e sociali, sui contesti a cui apparteniamo, sulla nostra cultura di riferimento. E ci porta alla necessità di operare una denuncia forte: quella contro il modello culturale di maschio italiano, per il quale il soggetto femminile perde la propria soggettività e diviene oggetto di cui disporre a proprio piacimento.

Discutendo con un compagno antropologo, emergeva come nella nostra visione occidentale di culture altre come quella Afghana o Somala, facciamo presto a definire le loro pratiche aberranti contro la donna, come fenomeni culturali. Ma una riflessione simile sulla violenza di genere in Italia ci porta a liquidarla come devianza patologica individuale. Ebbene, un omicidio ogni tre giorni non è follia o patologia, è allarme sociale e culturale da affrontare con la massima urgenza e con tutta la dirompenza di cui siamo capaci.

Occorre una presa di coscienza collettiva anche fra noi uomini, soprattutto fra noi uomini. Perchè fino ad ora, escludendo qualche caso particolare, non siamo stati capaci di inserire questa tema nella nostra agenda di mobilitazione politica. E soprattutto non siamo stati capaci di evidenziare come l’atto violento in sè è parte (ovviamente la parte più grave e evidente) di un fenomeno complessivo nel quale, la figura femminile è colpita e denigrata in tutti i suoi aspetti. Nelle vicende di carnefici e vittime è immediato combattere per le vittime, meno immediato è interrogarsi sulla nostra vicinanza o meno con i carnefici.

Troppo spesso nelle realtà politiche in cui militiamo, i ruoli di potere decisionale, di autorevolezza culturale sono esclusivamente maschili. Troppo spesso il linguaggio di cui ci dotiamo è fortemente maschilista: Troppe volte riteniamo la questione di genere un elemento sovrastrutturale per il quale la mobilitazione è meno importante e meno affascinante. Ma non capiamo che anche questi sono elementi gravissimi di violenza, strettamente legati alla violenza fisica.

Dobbiamo spazzar via tutto questo. Dobbiamo farlo noi uomini e debbono farlo le donne. Insieme, operando strategie di rotture culturali con l’esistente, costruendo spazi di sperimentazione, provando ad incidere a tutti i livelli, da quello sociale a quello legislativo, da quello culturale a quello comunitario.

E’ un tema che ci riguarda, compagni, più forte che mai.

 

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Il gesto Olimpico che ci meritiamo

Un gesto, solo un gesto, ma forte. Che ne so, un pugno chiuso, una bandiera, una parola su una maglietta.                                                                                                                                Non chiedo altro per questa Olimpiade, che mi gusterò con immenso piacere, che un semplice gesto di ribellione da parte di qualche atleta, magari italiano. Abbiamo bisogno di gesti provocatori, anche e soprattutto laddove non te li aspetteresti.

Il magnifico pugno chiuso guantato di John Carlos e Tommie Smith di Città del Messico ’68 è rimasto icona per la sua straordinaria bellezza e semplicità. Denunciava il razzismo della società americana e richiamava le lotte di Potere Nero. Un gesto ineguagliabile per la forza, il contesto, l’estetica crudeltà. Certo, era figlio della rivolta mondiale in corso, semplice espressione sportiva di una ribellione generalizzata. Ed oggi non c’è nulla di tutto questo.

Ma possibile che l’intera generazione degli sportivi attuali non riesca ad uscire dal mondo fatato in cui è immersa? Possibile che siano tutti immuni di fronte alla miriade di problemi che ci riguardano (e, in qualche maniera dovrebbero riguardare anche loro)?

Regalatemi un sussulto ve ne prego. Una bandiera No Tav sventolata per festeggiare una medaglia, un drappo rosso per denunciare le ingiustizie sociali del Capitalismo o una maglietta in cui denunciare il feroce Maschilismo generalizzato in ambito di giornalismo sportivo. Anche una cosa sola che possa riavvicinare lo sport alla sua anima popolare.      Noi che lo amiamo ci meritiamo questo riscatto.

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C’è voglia di Fascismo?

Nel giro di pochi giorni mi sono accaduti due episodi analoghi che m’han fatto pensare.

Un pomeriggio infrasettimanale, in un paesino dell’Alta Versilia dove lavoro, mi fermo a chiaccherare con un ragazzo del luogo, lavoratore nel sociale, una di quelle persone con cui scatta abbastanza naturalmente una simpatia reciproca, forse per il comune ambito lavorativo, forse per la comune appartenenza sociale. Mi spiega le difficoltà economiche di chi opera nel nostro campo, l’impossibilità di costruire un progetto di vita realmente completo e lamenta la disparità fra il popolo e i governanti. Io non posso che essere d’accordo e sottolineo tuttavia una mancanza generalizzata di reazione di fronte a tutte queste ingiustizie. Lui è d’accordo , condivide con me la mancanza di fiducia in nuovi imbonitori alla Beppe Grillo, poi esce con la frase incriminata: “Cosa dobbiamo fare? Forse, una nuova marcia su Roma?”

Passa una decina di giorni.

Mattinata infrasettimanale in quel di Marina di Massa, mi trovo a scambiare due parole con un signore di origine siciliana, da 40 anni abitante a Torino, pensionato, ex lavoratore delle poste. Commentiamo le immagini provenienti da un televisore che sparano con la solita bramosia il caso Nicole Minetti e il progressivo decadimento della politica amministrativa, e della televisione di informazione, insomma della società nel suo complesso. Lui sottolinea schifato la corruzione della classe politica, e mi vomita addosso la consueta accozzaglia di luoghi comuni, di eccessi di antipolitica, di appellativi offensivi verso il governo e i partiti. Io non replico e mi limito ad annuire. Finchè non arriva anche lui alla frase che non vorresti: “Ci vorrebbe un uomo forte… ora non proprio come lui… ma qualcuno simile a Mussolini”.

Chiaramente il collegamento fra le due scene è immediato e, nonostante due episodi non possano ovviamente essere rappresentativi, sono tuttavia emblematici, o quantomeno, dovrebbero far scattare un allarme.

C’è davvero voglia di Fascismo in Italia, fra la gente del popolo? Se anche in una terra oggettivamente antifascista come la nostra, si possono ascoltare frasi di questo tipo, il desiderio di autoritarismo sta ricomparendo?

Credo che nel complesso non si debba esaltare la portata di singoli episodi, ma altrettanto penso che non si debba sottovalutare una tendenza come questa, tanto più pericolosa, quanto più originata in ambito popolare. Non c’è, a mio parere voglia di fascismo, di uomo forte, di ritorno nostalgico ad epoche oscure. C’è tuttavia un’angosciosa richiesta di cambiamento, una disperata voglia di uscire dalla difficile situazione in cui siamo, una sacrosanta domanda di Altro. Ma c’è soprattutto la necessità di avere una prospettiva. Con l’abbandono delle idee egualitarie, con il rifiuto di ideologie che auspicavano il riscatto dei poveri, degli sfruttati, dei proletari, abbiamo negato al popolo, qui inteso nella sua accezione più neutra, prima di tutto la speranza nell’avvenire, nella rivolta, in un futuro di pace, pane e libertà. Gli abbiamo negato la speranza. E la possibilità di sentirsi partecipi a un’idea di trasformazione.

La colpa è di tanti, in primo luogo dei partiti della sinistra, che hanno sposato l’amministrazione dell’esistente come unico scenario possibile. Ma è anche colpa nostra. Perchè abbiamo tolto dal nostro vocabolario la parola Comunismo. E qui non si tratta di elaborazioni troppo teoriche e troppo distanti , che essendo viste come aleatorie e non realizzabili, non appartengono al concreto della vita. Si tratta di aver rinunciato a parlare della più bella speranza che l’Umanità abbia prospettato, quella dell’abolizione del privilegio della proprietà, dell’eliminazione della differenza fra padroni e classi popolari , della magnifica utopia “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.  

 Pensiamoci e torniamo a costruire. Perchè io vorrei poter rispondere a chi si augura un lugubre ritorno: “Caro amico la soluzione c’è. Costruiamola tutti insieme”.

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Mahmoud Sarsak

Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Solle: “Come spiegherebbe ad un bambino la felicità?”. “Non glielo spiegherei”, rispose, “gli darei un pallone per farlo giocare”.

Nella nostra appartenenza culturale, lo sciopero della fame non è una pratica di lotta particolarmente diffusa. Generalmente non la condivido, come non condivido il martirio: la vita vale la pena di viverla, giusta o sbagliata che sia. Tuttavia preferisco non giudicare una pratica di lotta se non dal risultato che produce, dalla capacità di incidere, dal contributo che può dare al grande cammino contro le ingiustizie.

Mahmoud Sarsak di ingiustizie ne ha subite tante ed ha scelto questa pratica. E’ stato liberato dopo 92 giorni di sciopero della fame, e oltre tre anni di prigionia e torture, senza lo straccio di un processo. Da questo punto di vista la sua pratica ha avuto un seppur parziale successo.

Mahmoud è diventato famoso, non certo perchè è stato il solo in Palestina a scegliere questo metodo estremo (sono moltissimi, per lo più dimenticati dalla comunità internazionale), quanto perchè era un calciatore professionista, nazionale, 25enne di belle speranze. Per lui si sono mobilitati i massimi esponenti della nomenklatura calcistica, nonchè qualche personaggio tradizionalmente vicino alle nostre istanze, uno su tutti Eric Cantona. Mahmoud viene arrestato a Beit Hanoun, Striscia di Gaza, mentre si dirigeva, con tanto di autorizzazione israeliana, nella West Bank, perchè sospettato di terrorismo. Un semplice sospetto gli costa una detenzione illegale: contro di lui non c’è nulla di dimostrato.

Mahmoud era un semplice calciatore, figlio di un calcio minore. Era un semplice 25enne figlio di una terra minore. Questa la sua unica colpa.

“Quando cresce il pericolo aumenta pure tutto ciò che salva”, canta un mio amico suonatore e scrittore. Mahmoud ha dovuto ancorarsi all’unica pratica che in quel momento avrebbe potuto ridargli la vita, e si è salvato.

E’ diventato famoso, ma non per quello per cui aveva creduto, non per un pallone, ma per la sua capacità di diventare icona, suo malgrado, di una lotta che coinvolge centinaia di prigionieri, non famosi come lui. E qui non si tratta di marcare la differenza col mondo del calcio nostrano, fatto di vita patinata e ricco di falsità. Si tratta, piuttosto di sottolineare come, indipendentemente dal contesto in cui ci troviamo, indipendentemente dai nostri trascorsi e dalle nostre prerogative, può sempre accadere di doverci fare protagonisti contro l’ingiustizia, di dover assumere su noi stessi in tutta la pienezza il nostro ruolo di ribelle. E può avvenire in qualsiasi momento, anche da calciatore.Questa storia, in fondo, è una sorta di riabilitazione anche per il Calcio e per noi amanti del Calcio, che da veicolo di comunicazione fra i più odiati, una volta tanto, ha avuto uno scatto d’orgoglio. Lo stesso scatto che qualche volta è stato capace di fare, con personaggi come Sollier, Socrates, Villa.

Mahmoud ha ottenuto il suo straordinario successo personale, ma ha voluto subito richiamare l’attenzione sui compagni di cella e sulla lotta per la libertà del popolo palestinese. Perchè quella drammatica esperienza l’ha fatto uscire dal senso di isolazionismo in cui da calciatore viveva. E perchè la vicenda palestinese è la più grande ingiustizia che il mondo odierno ci propina.

In fondo, a pensarci bene, questa non è una storia a lieto fine.

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“Il contro in testa” di Marco Rovelli. Uno splendido regalo alla nostra terra e alla sua anima ribelle.

Massa e Carrara sono due cittadine molto particolari. Non hanno molto da regalarci in termini di iniziative, eventi, particolarità. Ma hanno un’anima politica e sociale ribelle che le contraddistingue e che mi è molto difficile spiegare. Mi son trovato più volte nel tentativo di rendere quest’anima a amici e compagni di fuori, ma devo ammettere che ho sempre faticato e non sono mai rimasto pienamente soddisfatto. Almeno fino ad oggi. Da ora, quando vorrò provare a rappresentare questa terra, sarà sufficiente consigliare la lettura di questo libro, “Il contro in testa” di Marco Rovelli.

Il libro di Marco è prima di tutto un bel libro, avvincente e ricco di suggestioni. Una sorta di percorso riappacificatore fra l’autore e la sua terra, partito dai racconti nelle osterie e sviluppatosi attraverso storie di anarchia, di Resistenza, di ribellione, nel tentativo di spiegare quel sentimento, il più delle volte sottotraccia, che contraddistingue l’approccio di questa terra alla vita.

Ed è bellissimo perdersi fra episodi emblematici che rendono l’idea di un contesto che all’anarchia prima di tutto, ma anche al Socialismo e alla ribellione tout court, ha dedicato una parte consistente della propria vita.

“…Nel centro di Forno c’è la Casa Socialista (…)  Una volta, era il ’66, mondiali di calcio in Inghilterra, e nella Casa Socialista (detta Cremlino) c’era il pienone per vedere Italia-Urss. Ovviamente tifavano tutti per l’Unione Sovietica. Due compagni osarono esprimere il loro amore per Rivera, e furono condannati ad alzarsi in piedi, mettersi ai lati del televisore, voltati verso il pubblico. Non si meritavano la visione…”

E’ ricca di contraddizioni questa terra, come lo è l’anarchia che, almeno nella sua parte carrarina ne costituisce l’anima. Marco la sviscera e la racconta con la consueta maestria, mettendo in luce come sia strettamente intrecciata alla storia delle cave di marmo e dei cavatori.

“… era sulla strada della Foce che una delle bande degli insorti aveva eretto la prima rudimentale barricata, fermando due carri trainati da buoi, carichi di blocchi di marmo, e mettendoli di traverso. Era il 13 Gennaio, e l’insurrezione carrarina avrebbe contagiato l’Italia, i dimostranti ne erano certi. (…) La scintilla fu dunque sulla Foce: e non so quale tenace apuano spirito abiti quel luogo, se è vero che proprio sul valico della Foce sarebbe iniziata la Resistenza, l’8 settembre del ’43, quando gli Alpini del Battaglione Val di Fassa si unirono ai cittadini che finalmente potevano reagire e dettero battaglia ai tedeschi”.

Il libro, come dicevo, si configura come un percorso di riappacificazione con questa terra, che si compie realmente con la lotta dei migranti del Duomo di Massa, l’anno passato, nella quale, finalmente Marco riscopre quello spirito ribelle, quel magnifico filo rosso egualitario che ci caratterizza.

E l’aver fatto parte di quel momento di lotta è per lui momento redentore. Come lo è stato per me, del resto.

Siamo noi, col nostro essere insieme, che ricostituiamo, ogni volta, le comunicazioni spezzate. Questo, al di là di ogni verità storica, è il fatto. Ed è una verità etica. Ogni volta riprendiamo in mano i fili e li reintrecciamo, per far passare di nuovo l’elettricità. Per far luce, anche quando il buio sembra avanzare senza scampo”.


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Voglio essere un oggetto. Sulle sentenze genovesi e il mondo alla rovescia.

Le sentenze sono arrivate come un macigno sulla memoria, la storia e la concezione di conflitto sociale. Sono sentenze politiche e segnano una presa di posizione forte del sistema repressivo italiano nel suo complesso.

Ma soprattutto ci dicono una cosa molto semplice: la trasformazione auspicata dalle classi dominanti della concezione di “delitto da punire” si è completata in tutto e per tutto.

Mi spiego. Nella storia dei meccanismi disciplinari, i potenti e soprattutto la classe borghese in ascesa, a un certo punto necessita di una trasformazione del concetto di delitto. Se fino ad allora, dal punto di vista legislativo, era forte la punizione per gli autori di delitti contro la persona mentre le punizioni per i colpevoli di reati contro le cose erano minime, con la rivoluzione della borghesia si impone il concetto di difesa della proprietà privata. Occorreva un un sistema più efficiente, razionale e capillare di controllo delle classi subalterne. Vi era la necessità di limitare le crescenti rivolte sociali, che avevano come obiettivo prioritario i forni per avere il pane. In Italia tutto questo si realizza in pieno in epoca fascista, col codice Rocco, che introduce il reato di “devastazione e saccheggio”, quello utilizzato per questa sentenza.

Se ci pensiamo bene queste sentenze hanno sublimato questa necessità. Si è realizzata in pieno la trasformazione concettuale ed anche l’opinione pubblica, assetata di vendetta, si è scandalizzata in maniera clamorosamente asimmetrica per una vetrina spaccata, un auto in fiamme, una banca in frantumi, di contro a centinaia di corpi martirizzati, colpiti, torturati, al sangue che ha invaso le strade di Genova.

Eppure la disparità delle condanne ai manifestanti rispetto ai massacratori della scuola Diaz, non deve sorprendere. E’ figlia di una società che ha assolutizzato la sacralità della proprietà privata, difendendola per legge al di sopra di tutto. Una società nella quale alla merce viene garantita la piena libertà di movimento, mentre di fronte all’essere umano si ergono muri, ostacoli, catene.

Anzi, a pensarci bene, se l’atto a danno di cose è punito in maniera molto più feroce di quello a danno di esseri umani, se una cosa può muoversi con molta più libertà di un essere umano, conviene fortemente essere una cosa. E’ si è realizzato in pieno il mondo alla rovescia, il Capitalismo.

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Una piazza di migranti è il mondo che c’è già.

Ieri sera, spinto dal senso del dovere, un po’ di malavoglia, vado a La Spezia, assieme ad altri compagni, per assistere all’assemblea popolare organizzata sul tema dell’immigrazione. Si tratta di un’iniziativa organizzata dall’associazione “Io non respingo”, dedicata alle comunità migranti del territorio, con la presenza fra i relatori del responsabile nazionale sull’immigrazione per la CGIL e dell’assessore comunale al sociale. L’assemblea si tiene in quella che è divenuta di fatto il centro della Spezia multiculturale, piazza Brin.

Gli interventi, interessanti, ma politicamente discutibili, sono solamente il corollario di una serata che dal punto di vista umano, sociale e culturale rappresenta invece una fotografia su quello che immaginavo potesse essere il futuro, ma che quasi ovunque è già presente. Centinaia di migranti, provenienti da diversi paesi, ma principalmente dal Senegal e dal centro America, assistono all’iniziativa e vi prendono parte da protagonisti, rendendo in tal modo un’immagine di quello che significa immigrazione, con tutte le sue straordinarie opportunità e tutte le contraddizioni. Parlare di permessi di soggiorno, di sanatoria, o più semplicemente di diritto al lavoro è l’obiettivo della serata. Ma, attraverso questi obiettivi pratici, fondamentali perchè condizione imprescindibile alla vita, emerge un’altra realtà, straordinaria perchè imprevista, almeno per me: è questa una assemblea di persone che dimostrano uno straordinario legame col territorio in cui hanno scelto di vivere. Emblematico, in questo senso, l’intervento di un Dominicano che chiede all’assessore di intervenire contro la sporcizia e il degrado della piazza. I migranti ascoltano, domandano, partecipano e finalmente prendono parola: si raccontano e polemizzano, chiedono e propongono. Mettono in difficoltà i relatori. Ma anch’io, un po’ lo sono, perchè abituato alle assemblee un po’ ingessate di noi militanti, che sembriamo costretti a seguire una sorta di copione e in parte abbiamo perso la purezza popolare dell’assemblea cittadina.

Appena mi ridesto da queste considerazioni vengo travolto dall’intervento di una madre che racconta i problemi del figlio, nato in Italia, che vive a La Spezia da molti anni e che gioca a basket: ma è costretto spesso a rinunciare alle trasferte perchè è privo di permesso di soggiorno. Sono esempi di vita, semplici ma ferocemente crudeli, nella loro banale ingiustizia.

L’assemblea popolare di ieri è stata una bella sorpresa. Mi aspettavo la solita riunione tecnica e mi son trovato immerso in un mondo nuovo e imprevisto, pieno di difficoltà, ma ricco di colore e di opportunità. E ringrazio Sonia, Madiaw e tutti coloro che attraversano Piazza Brin ogni giorno. Forse non hanno una maturità politica per costruire con questi migranti un forte movimento che, da rivendicativo diventi politico a tutti gli effetti. Ma possiedono una capacità di contatto culturale che, in fondo, è la prima caratteristica per chi vuole cambiare il mondo.

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Misure contro la prostituzione. Il concetto infame di decoro urbano.

Nelle stancanti giornate di luglio, fra una distratta occhiata ai quotidiani locali ed una più interessata agli effetti della crisi, mi colpisce un articolo, uscito sul Tirreno del 7 luglio.

Si tratta della descrizione dell’ennesima misura discutibile di quest’amministrazione, per la quale i problemi degli ultimi se non si possono affrontare si devono almeno nascondere dalla vista. Era già successo con gli ambulanti di Piazza Aranci, dopo tutto.

Di cosa si tratta? Dell’ordinanza denominata “Misure a tutela dell’incolumità pubblica e della sicurezza urbana” con la quale si prova ad ostacolare la prostituzione sul lungomare la sera. E’, in pratica, un’iniziativa per impedire o quanto meno limitare il contatto fra prostitute e clienti. In particolare mi ha colpito un passaggio dell’ordinanza in cui alle prostitute è proibito “…assumere nell’esercizio della prostituzione, atteggiamenti che possano in qualche modo recare offesa o costituire pericolo all’integrità fisica o morale dei minorenni, alla sanità, alla sicurezza o alla tranquillità pubblica come adescamento, ostentazione scandalosa, molestie ai passanti, clamori e assembramenti idonei a provocare litigi e simili”.

Mi ha colpito, lo confesso. Mi ha colpito per il consueto utilizzo del concetto di “decoro urbano”. Sembra che in questo paese ogni qualvolta ci siano situazione marginali e complesse, l’unico problema sia quello di non colpire la sacra sensibilità della tranquilla famigliola. E la mente corre alla protesta dei migranti per il permesso di soggiorno e contro la sanatoria truffa, che l’anno scorso portò all’occupazione, dapprima del Duomo e poi della scalinata antistante. Ebbene, anche allora si parlò di decoro e della necessità di non urtare la sensibilità dei fedeli diretti in Chiesa.

Ma una misura come quella intrapresa con questa ordinanza, non fa altro che spostare i luoghi della prostituzione in zone magari più isolate, meno visibili e quindi meno sicure. Inoltre la multa che verrebbe inflitta alle prostitute che infrangessero queste regole, potrebbe avere l’unico effetto di scatenare la reazione degli schiavisti e magari di costringere le migranti a fuggire vero i luoghi di provenienza, e quindi verso guerre, sfruttamento ulteriore, miseria.

Viviamo nel primo mondo. Un mondo che ha imposto leggi infami e nelle quali lo sfruttamento è l’elemento cardine. Un mondo che ha anche imposto un complesso sistema di regole ambigue e contradditorie, per le quali esiste un’imposizione di moralità a senso unico. E dove le presunte nudità proletarie dei marciapiedi devono essere nascoste, attaccate, villipese, mentre ben altre nudità si impongono come modello culturale e come strategia di controllo dei corpi e delle menti.

A Marina di Massa anche quest’anno ci sarà la consueta sfilata di moda di ragazzine in costume e lingerie. Non ho nulla contro questa sfilata. Ma non vedo la differenza con altri corpi esposti. E trovo che coloro che hanno trasformato un concetto infame come quello di “decoro urbano”, in un dispositivo di potere e di dominio classista, siano ferocemente colpevoli, ingiusti, ipocriti.

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Un abbraccio collettivo e ripartiamo

Giuseppe, Kerim, Silvia, innanzitutto voglio abbracciare voi, miei cari compagni di viaggio nella straordinaria tre giorni del g8 di 11 anni fa. Dopo la sentenza di condanna dei vertici della polizia per la mattanza della notte del 22 luglio, voglio abbracciarvi perchè nulla ci è stato restituito e nulla è stato cancellato.

Non ci hanno restituito quel senso di ribellione con cui abbiamo attraversato le strade di Genova. Non ci hanno restituito quella splendida voglia di lottare, quel senso di appartenenza, quell’anima dopo allora mai più pura. Non hanno cancellato, la paura, l’angoscia, la corsa, i lacrimogeni, il sangue, gli elicotteri. E il tunnel di Brignole.

Non ci hanno restituito la felicità di assistere per tre giorni alla rappresentazione di un mondo possibile, multicolore, umano. E neppure quello spirito di contaminazione reciproca, di corpi sudati che marciavano insieme. Non hanno cancellato la rabbia, e il senso di impotenza, il dolore e l’odore acre della sconfitta. E neppure gli occhi di odio del poliziotto col lancialacrimogeni puntato al nostro petto, da 5 metri.

No, cari amici e compagni, con questa sentenza non ci hanno restituito nulla che già non fosse nostro, riconquistato con anni di riflessioni e lotte. Solo un soffio di vento in una giornata torrida. E allora abbracciamoci solo un minuto, ma poi rimettiamoci in cammino.

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