Amina (la chiamerò così) ha sei anni, a settembre vorrebbe iniziare la tanto temuta, ma tanto desiderata prima elementare. All’asilo si trova bene, con tutte quelle amichette. Amina viene da una famiglia marocchina e si trova sulle spalle tutti i problemi connessi al bilinguismo. E’ difficile capirla, quando parla. Anche per me che la conosco da qualche tempo. Ma non per le sue amichette: con loro ha sviluppato una sorta di “esperanto” e si fa meravigliosamente capire. Amina è molto alta per la sua età, dopo tutto entrambi i genitori lo sono. Questa difficoltà linguistica è un problema, dicono le maestre. Forse dovremmo fermarla. E se non quest’anno, almeno il prossimo. Ma Amina ha delle amichette che la capiscono meravigliosamente e non vuole perderle. E poi quelle di un anno più piccole, sono così minute per lei, già alta per le sue coetanee.
Rasheed (lo chiamerò così) fa la terza media. A metà anno è andato a trovare i parenti in Marocco ed è stato via 4 mesi. Non è ovviamente lui il responsabile di questo: ci sono difficoltà economiche per tornare. Ha saltato buona parte del programma e non ci sono speranze per l’ammissione all’esame. Ma Rasheed è un ragazzino sveglio. Pur sapendo la situazione, prova il tutto per tutto. Ha difficoltà ed enormi lacune nel programma. Rasheed è in gamba davvero meriterebbe di proseguire il percorso, ma la legge è la legge: se non conosci la Prima Guerra Mondiale non puoi accedere alle superiori. E questo nonostante sia uno dei più interessati alle tragiche vicende della Seconda Guerra Mondiale e dei più sensibili alle atrocità del Nazismo.
Gianluca (lo chiamerò così) fa la seconda media. E’ pluri-bocciato. Ne ha fatte tante, dal punto di vista comportamentale e vive una situazione paradossale nella quale tutti cercano di dargli una mano che lui non vuole, io per primo. Gianluca è interessato a tutt’altro: i motori, le ragazze, il divertimento. Conosce a memoria ogni parte di scooter, auto e mezzi vari. Spesso gli ho chiesto consigli, non capendo nulla delle spiegazioni tecniche che puntualmente accompagna alla risposta. Tre volte l’hanno bocciato negli anni passati: per rieducarlo, per disciplinarlo o per provare a dargli una formazione di cui necessita. Gianluca però non la vuole. Ha altro per la testa. Conveniamo che sia sufficiente che vada a scuola e proviamo a sperimentare strategie per invogliarlo: per un po’ funziona. Ma poi Gianluca cede e oltrepassa il numero di assenze anche quest’anno e anche quest’anno è “Anno Non Valido”.
Tre storie emblematiche, fra mille. Tre storie che conosco perchè m’hanno coinvolto. Tre storie dalle quali vorrei partire per articolare un ragionamento sulla funzione della scuola e sui metodi educativi imposti, sui quali a mio parere c’è molto da discutere.
Innanzitutto il merito. Questo è il concetto chiave. Una campagna enorme s’è imposta nei più svariati contesti, anche i nostri, secondo cui viviamo in una società che calpesta il presunto merito acquisito con anni di impegni e di studi. In questa corsa in cui si sarebbe trasformata la società ( per comodità perchè non lo chiamate Darwinismo sociale?), molti dei primi verrebbero accantonati per favorire dei protetti. Già, una corsa. Ma fin da piccoli non ci avevano insegnato che per competere bisognerebbe partire tutti dallo stesso punto? Che, anzi, era giusto far partire magari un po’ prima il più lento, il più cicciottello, quello un po’ goffo? Oggi questo merito irrompe nelle classi e impone dei criteri di giudizio e di selezione, di cui le “Prove Invalsi” non sono altro che l’esempio più visibile, ma non il più grave.
Michel Foucault chiamava queste agenzie della formazione (uso questo termine perchè è quello in voga ed è emblematico di come il potere impone la propria strategia dall’uso del linguaggio) “Istituzioni totali”. E intendeva con esse luoghi in cui si operava un allontanamento e un’esclusione dal resto della società dei soggetti che vi prendevano parte, allontanamento guidato con un controllo sempre operato dall’alto e sempre unidirezionale. Oggi a scuola vogliono bambini e ragazzi avulsi dal contesto sociale di riferimento, dal mondo circostante e, soprattutto, privi della capacità di relazione. Essa, anzi, non è più un criterio di giudizio (o non lo è mai stata): asini che non studiano e quindi vanno bocciati.
E’ una strategia complessiva che colpisce la scuola pubblica, come luogo di socializzazione e di meticciato, che impone dei modelli basati sull’apprendimento fine a se stesso e di cui il personale lavorativo diventa allo stesso tempo vittima e carnefice. Vittima perchè anch’esso sottoposto a ridicoli criteri di giudizio; carnefice perchè nella frustrazione di non avere mezzi e possibilità di svolgere il proprio lavoro, è tentato di adottare l’unica risorsa a propria disposizione: attenersi al programma e rinunciare al proprio ruolo educativo-formativo.
Io vorrei una scuola e dei professori che la smettessero di vedere gli studenti come avulsi dal resto della società e della vita. Vorrei una classe nella quale il ritmo non fosse imposto dai più bravi, ma dai più lenti, che la smettesse di adoperare il metodo di lezione frontale e cominciasse a prendere in considerazione la disposizone circolare. Vorrei una classe nella quale la relazione di conoscenza (soprattutto delle rispettive culture di appartenenza) fosse materia curricolare. Vorrei una scuola del tempo pieno che non desse compiti a casa, perchè a casa bisogna fare altro.
Avremmo meno ingegneri, meno conoscenze, meno dottori? Può darsi, ma forse avremo più uomini e donne.
Un personaggio (che se non avesse quel cavolo di “Don” davanti al nome sarebbe molto più studiato e compreso e mi starebbe più simpatico), Don Milani, diceva che la scuola che boccia ha fallito nel proprio compito. Assumiamoci questo assunto come linea guida.