L’incidente del mostro Farmoplant. Il mio 17 luglio 1988

Nel 1988 avevo tredici anni. Alle 7,30 di quel 17 luglio dormivo, cosa non così scontata, vista la mia perenne propensione a svegliarmi presto, credo inculcata da mia madre per la quale il dormire la mattina rasenta la colpa capitale. Anche mia sorella dormiva. Mio padre ci venne a svegliare concitato. C’era una strana nube in cielo, nera, minacciosa. Aveva sentito un’esplosione poco prima ma non gli aveva dato tutta questa importanza. Però, ora, quella nube non lasciava spazio a molte interpretazioni. Quel mostro che popolava quotidianità, cronache e immaginario anche di noi ragazzini aveva colpito. Dovevamo scappare.

E’ una reazione di per sè logica. Lo è ancor di più per chi ha vissuto da abbastanza vicino il disastro di Seveso del ’76. Io avevo un anno e vivevamo a Milano. La cosa aveva segnato fortemente: sarebbe stato uno dei molti incidenti ambientali del Capitalismo in espansione. Avevo in casa un fumetto che raccontava la storia di Seveso, chissà che fine ha fatto, perso forse nei traslochi. Quella mattina mi ritrovai spesso a pensare alle immagini di quel fumetto.

Ricordo la fuga in macchina, noi quattro più una vicina di casa e il suo cagnolino, verso la Versilia, Forte dei Marmi, Lido di Camaiore. Ricordo molte auto, l’incertezza, la radio accesa. Non si capiva molto, le voci si rincorrevano, si parlava di morti e feriti. “Chissà se oggi faccio intempo a vedere la tappa del tour”, pensavo. I miei genitori decisero di andare vicino a Portovenere, nel paese prima, Le Grazie, a dormire da mia nonna. Il giorno successivo, ricordo, Repubblica apriva con la notizia. “Massa in prima pagina su Repubblica, che onore!”, pensai. Mio padre leggeva Repubblica (la abbandonò pochi anni dopo, fortunatamente), e in me già si presentavano i primi sintomi di quello strano feticismo per i quotidiani che ho ancora.

Quando passavi davanti alla farmoplant, o Montedison come impropriamente la chiamavamo noi, visto che era la vecchia denominazione, si faticava a respirare. A 100 metri c’era un bellissimo campo da pallone semi-abbandonato, di proprietà di una colonia estiva. Andavamo spesso lì a giocare, bastava saltare la rete. Al campo della colonia a seconda di come tirava il vento si faticava a giocare per la puzza. Puzza di uova marce.

“Questa è stata la tua prima manifestazione”, disse mio padre in tono quasi solenne. Mi ci portò lui. Era un corteo per la chiusura della Farmoplant, qualche anno prima dell’incidente. In un’altra occasione andammo ad un corteo in bicicletta. Fu molto divertente. Chissà, magari il mio amore per le manifestazioni lo devo a quel mostro.

La vicenda della Farmoplant fu anche un esempio pardigmatico del conflitto ambiente/lavoro. Il PCI si schierò contro la chisura dello stabilimento, per la difesa dei posti di lavoro. Concetti come riconversione sembrano alieni oggi, figuriamoci allora.

La Farmoplant ha segnato la nostra infanzia, popolato le nostre menti, invaso i nostri polmoni. Era il Capitalismo selvaggio contro la popolazione, il territorio, la natura. Contro il buon senso, l’umanità, la vita. Esattamente come il Tav, l’Ilva, il Muos, i rigassificatori di Livorno, la difesa delle Apuane. Tutto quello contro cui stanno lottando i Movimenti degli uomini giusti. A Massa è difficile trovare un nucleo familiare senza un morto di tumore. Anche mio padre. Non so se la cosa sia da attribuire a quel mostro.

L’incidente di venticinque anni fa pose le condizioni per la successiva chiusura. Nel frattempo il Capitalismo non è più in espansione ma in decadenza. Tuttavia le sue minacce concrete alla vita di noi tutti proseguono. Spetta a noi batterci e portare le nuove generazioni alla presa di coscienza. Perchè no, magari in bicicletta.

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