Genova non è il nome di una città. Genova è insieme un luogo, un tempo, un evento. E sensazioni.

Genova non è il nome di una città. Genova è insieme un luogo, un tempo, un evento. E sensazioni. La memoria fa confusione a 12 anni di distanza. I ricordi si concentrano su alcuni particolari e ripercorrerli disordinatamente ti riporta a un tempo lontano, a un io lontano. Solo la pelle d’oca è la stessa.

Carlo Giuliani è rimasto ragazzo, per sempre ragazzo. Noi no, siamo cresciuti. E non abbiamo più quella forza, quel coraggio e quella spensieratezza. Discorso banale, ma vero. 

Chissà che fine ha fatto quella ragazza francese del corteo per i migranti. Era bellissima, tutta vestita di nero. “No justice, no peace, fuck the police”, gridava. Ora forse lavorerà in banca. O forse no, s’è mantenuta compagna e vive in una casa occupata di una banlieu parigina. 

La mattina del venerdì, fatidico 20 luglio, entriamo in un bar per far colazione. Ci sono dentro tanti compagni. E tanti sbirri. “Hai presente il cartone animato di Beep Beep e Willy il Coyote” mi dice G.. La quiete prima della tempesta. E’ spaventoso. Ma quanto era buono quel cornetto.

Durante il grande corteo del sabato ci stavano caricando. Noi e tutti quelli che ci hanno raggiunto, i compagni e gli amici da casa. Anche mio padre. Mi sentivo per loro come il padrone di casa a un evento. Dovevo e volevo raccontare, illustrare, guidare. Durante il corteo, dicevo, ci stavano caricando duramente e si scappa. Cavolo, mio padre. Dov’è? Era corso in avanti più veloce di me. Rivincita generazionale.

K. è venuto a Genova in incognito, a casa nessuno lo sa. Non vuole litigare, nè far stare in pensiero. Appena scesi lo avvicina e lo intervista la BBC. Speriamo che non lo mandino in mondivisione. 

La festa di Piazzale Kennedy è meravigliosa. C’è pieno di gente, di compagni. Si discute e si balla, si beve e ci si abbraccia. Ciascuno ha un suo mondo possibile in testa. Trecentomila mondi possibili. Chi ha detto che questo è l’unico?

Quando in Piazza Da Novi inizia il delirio, un compagno incappucciato osserva l’insegna di una farmacia ormai devastata. Rimane appesa ed intatta solamente la lettera R. Prende un sasso, un sanpietrino e la colpisce, abbattendola. Che mira.

L’anziano signore genovese che ci apre la casa per farci fuggire dalla polizia, noi rimasti in quattro, ci ha salvato. Ci guarda con compassione, ma anche con comprensione. E’ con noi, ma non condivide quel delirio là fuori. E forse neppure noi. Non si fida completamente, ci lascia in giardino, accompagnandoci ad uno ad uno per andare in bagno. Riceve la telefonata della figlia e si mostra un po’ più sospettoso. Ma è un compagno. Penso che sappia di esserlo. Chissà se ha rimpianto di averci aiutato quando riceve gli insulti dai vicini di casa.

Lo sbirro-pompiere che ci punta il fucile lancia lacrimogeni al petto non lo dimenticherò mai. Ci intima il mani in alto. Non dimenticherò neppure G. che abbassa le mani e di nuovo quella voce da servo, metallica ma feroce: “Ho detto mani in alto, merde!”

Nell’armadio ho ancora una maglietta gialla, orribile. E’ dell’UDU, unione degli universitari, la tengo per ricordo. Li incontriamo in piena fuga, noi siamo in tre (o forse c’è qualcun’altro che si è aggiunto). Io son vestito in maniera inequivocabile. Maglietta nera, felpa nera, pantaloni militari, anfibi al ginocchio, foulard nero. Non ero un black block. Era il mio provinciale senso di ribellione ai diktat delle Tute Bianche. Comunque, dobbiamo oltrepassare una specie di check point e così vestito mi aggredirebbero, mi investirebbero, mi arresterebbero. Così chiedo una maglietta gialla e per un attimo divento dell’UDU. Istinto di sopravvivenza. 

Quando la manifestazione dei migranti entra nel tunnel vicino al porto, tutti urlano. E’ incredibile, assordante, meraviglioso. E’ l’urlo di 6 miliardi di persone. 

I miei anfibi sono bellissimi. Li ho comprati al negozio dell’usato che c’era a Massa. Originali dell’esercito tedesco 80mila lire. Praticamente nuovi. Li uso molto ma mai ad un corteo, prima di quella volta. Al ritorno al campeggio della Sciorba la prima sera, i calzini sono rossi di sangue. Benedetta signora della rete di Lilliput e benedetta organizzazione: mi riempie di disinfettante e di garze. 

Mio padre segue la diretta del corteo e degli scontri del venerdì su radio Popolare. Io non ho il telefono cellulare, ma per fortuna G. si. E nella giornata di fuga a cui noi cani sciolti e spaventati siamo costretti, ci aggiorna sulla situazione e su dove è meglio muoversi.

Mio cugino M. ci raggiunge da Milano. E’ venuto in macchina. Dopo una giornata di scontri di fuoco e di deliri vari, ha il terrore di ritrovare l’auto in condizioni disperate. Lo accompagnamo a riprenderla ed è miracolosamente intatta. Alla sua sinistra un furgoncino devastato contro una saracinesca. Alla sua destra un auto incendiata. Il blocco nero ha rispetto per le auto proletarie. 

Genova non è il nome di una città. Genova è insieme un luogo, un tempo, un evento. E sensazioni. E’ la cosa allo stesso tempo più straordinaria e drammatica della mia vita. Non riuscire a renderne lo spirito è la cosa più pesante. Nel 2005 gestivo un circolo a Massa. Il 20 luglio a notte inoltrata dopo la chiusura, sono lì con gli amici di sempre, a chiacchierare. G. all’improvviso si ferma e ci dice: “Vi ricordate quattro anni fa? Che senso di appartenenza, che spirito, che bello! Ora non c’è più, abbiamo perso.”

La sconfitta è un concetto non sempre così assoluto e soprattutto esiste la rivincita. Quel movimento indubbiamente ha perso, fra riflussi, repressione e individualismi vari. Ma noi siamo qui. Per riprovarci, per ripartire.

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