I casi Assange e Pussy Riot non riguardano la libertà di parola.

-Julian Assange ha ottenuto asilo politico dall’Ecuador di Correa.

-Le militanti del gruppo musicale “Pussy Riot” sono state condannate a due anni di carcere.

-La verità è sempre rivoluzionaria.

 

Due processi, fortemente mediatici e assolutamente inediti hanno tenuto banco nelle cronache più recenti. Due processi che i media progressisti mondiali hanno provato a derubricare alla categoria “libertà di parola”.

Julian Assange, attivista australiano noto per la sua straordinaria militanza in Wikileaks, è stato condannato per una ridicola messinscena: il reato contestatogli sarebbe quello di aver avuto rapporti sessuali non protetti, seppur consenzienti, con due donne, Anna Ardin  e Sofia Wilén, e di aver successivamente rifiutato di sottoporsi ad un controllo medico sulle malattie sessualmente trasmissibili, condotta considerata criminosa dalla legge svedese. Come è noto Assange rischia l’estradizione negli Stati Uniti dove potrebbe esser processato per Alto Tradimento, rischiando una pesante condanna, perfino la pena capitale. Da qui l’apertura dell’Ecuador di Correa nei suoi confronti.

Maria, Yekaterina e Nadezhda, tre delle componenti del gruppo punk russo “Pussy Riot” sono state condannate a due anni di carcere per aver inscenato una provocatoria protesta anti-Putin nella Cattedrale di Mosca, con tanto di segno della croce e preghiera punk. Il gruppo “Pussy Riot”, è un collettivo femminista e politicamente impegnato, che ha fatto della provocazione il suo principale mezzo di comunicazione.

I media Occidentali hanno immediatamente aperto il dibattito sulle due vicende. L’obiettivo delle ammiraglie dell’informazione nostrana, a partire dal tg1 e da Repubblica è stato quello di portare i termini della discussione, come dicevo,  sulla “libertà di parola”. E’ giusto o meno condannare qualcuno perchè afferma presunte verità, fortemente scomode o addirittura pericolose per la sicurezza nazionale (come nel caso Assange)?

Credo si tratti ancora una volta di un’abile operazione per spostare i termini della discussione. Parlare di questo significa non prendere in considerazione la reale portata delle due offensive, che, seppur profondamente differenti tra loro, possono essere accomunate dalla volontà di schiacciare ogni voce ribelle, ogni gesto di rivolta, sia esso radicale e provocatorio o tecnicamente disvelante.

No, non si tratta di parola. Si tratta di potere. Assange con le sue verità raccontate al mondo, verità che in fondo non avevano nulla di così strordinario se non la capacità di denigrare il potente di turno, se n’è preso gioco. Così come l’ha schernito l’azione delle Femministe russe.  E il potere ha sempre temuto più di tutto chi ha avuto la forza e il coraggio di smascherarne le trame e ridicolizzarne le caratteristiche.

Oggi più che mai, in un’epoca in cui dobbiamo reinventare il nostro attacco al potere, perchè le esperienze passate non sono immediatamente riproducibili e perchè il monopolio della forza è sua prerogativa, dobbiamo far nostre queste battaglie. Quella di Assange e quella delle Pussy Riot.

E se proprio vogliamo parlare di “parola” è per sottolineare la forza di chi appropriandosene ha segnato una discontinuità, offrendoci una azione realmente rivoluzionaria.

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