Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Solle: “Come spiegherebbe ad un bambino la felicità?”. “Non glielo spiegherei”, rispose, “gli darei un pallone per farlo giocare”.
Nella nostra appartenenza culturale, lo sciopero della fame non è una pratica di lotta particolarmente diffusa. Generalmente non la condivido, come non condivido il martirio: la vita vale la pena di viverla, giusta o sbagliata che sia. Tuttavia preferisco non giudicare una pratica di lotta se non dal risultato che produce, dalla capacità di incidere, dal contributo che può dare al grande cammino contro le ingiustizie.
Mahmoud Sarsak di ingiustizie ne ha subite tante ed ha scelto questa pratica. E’ stato liberato dopo 92 giorni di sciopero della fame, e oltre tre anni di prigionia e torture, senza lo straccio di un processo. Da questo punto di vista la sua pratica ha avuto un seppur parziale successo.
Mahmoud è diventato famoso, non certo perchè è stato il solo in Palestina a scegliere questo metodo estremo (sono moltissimi, per lo più dimenticati dalla comunità internazionale), quanto perchè era un calciatore professionista, nazionale, 25enne di belle speranze. Per lui si sono mobilitati i massimi esponenti della nomenklatura calcistica, nonchè qualche personaggio tradizionalmente vicino alle nostre istanze, uno su tutti Eric Cantona. Mahmoud viene arrestato a Beit Hanoun, Striscia di Gaza, mentre si dirigeva, con tanto di autorizzazione israeliana, nella West Bank, perchè sospettato di terrorismo. Un semplice sospetto gli costa una detenzione illegale: contro di lui non c’è nulla di dimostrato.
Mahmoud era un semplice calciatore, figlio di un calcio minore. Era un semplice 25enne figlio di una terra minore. Questa la sua unica colpa.
“Quando cresce il pericolo aumenta pure tutto ciò che salva”, canta un mio amico suonatore e scrittore. Mahmoud ha dovuto ancorarsi all’unica pratica che in quel momento avrebbe potuto ridargli la vita, e si è salvato.
E’ diventato famoso, ma non per quello per cui aveva creduto, non per un pallone, ma per la sua capacità di diventare icona, suo malgrado, di una lotta che coinvolge centinaia di prigionieri, non famosi come lui. E qui non si tratta di marcare la differenza col mondo del calcio nostrano, fatto di vita patinata e ricco di falsità. Si tratta, piuttosto di sottolineare come, indipendentemente dal contesto in cui ci troviamo, indipendentemente dai nostri trascorsi e dalle nostre prerogative, può sempre accadere di doverci fare protagonisti contro l’ingiustizia, di dover assumere su noi stessi in tutta la pienezza il nostro ruolo di ribelle. E può avvenire in qualsiasi momento, anche da calciatore.Questa storia, in fondo, è una sorta di riabilitazione anche per il Calcio e per noi amanti del Calcio, che da veicolo di comunicazione fra i più odiati, una volta tanto, ha avuto uno scatto d’orgoglio. Lo stesso scatto che qualche volta è stato capace di fare, con personaggi come Sollier, Socrates, Villa.
Mahmoud ha ottenuto il suo straordinario successo personale, ma ha voluto subito richiamare l’attenzione sui compagni di cella e sulla lotta per la libertà del popolo palestinese. Perchè quella drammatica esperienza l’ha fatto uscire dal senso di isolazionismo in cui da calciatore viveva. E perchè la vicenda palestinese è la più grande ingiustizia che il mondo odierno ci propina.
In fondo, a pensarci bene, questa non è una storia a lieto fine.