La nostra è una generazione maledetta. Chi è nato a metà degli anni ’70 è cresciuto nella consapevolezza di un costante senso di inadeguatezza politica: gli echi della stagione della contestazione ci hanno accompagnato per tutta la vita, senza poterne cogliere l’essenza, imprigionati nel nulla politico degli anni ’80. E allorchè gli anni ’90 portano un illusorio barlume di risveglio (la Pantera soprattutto, ma non solo), la cultura della real politik lo rispedisce immediatamente in un angolo.
Pensavo a tutto questo mentre il 5 ottobre, assieme a decine di compagni entravo in un posto occupato, abbandonato, ferito, con l’idea di trasformarlo in un laboratorio politico, sociale, culturale.
Già, i Centri Sociali. Per noi poveri sfigati di provincia hanno rappresentato allo stesso tempo, modello a cui tendere e utopia irraggiungibile. Una generazione ribelle, antagonista, figlia in tutto e per tutto dell’epoca della ristrutturazione, provava a recuperare un pensiero figlio degli anni ’70, e a riproporlo con un vento di novità e un senso di conflittualità nuovo e adattato ai tempi. Noi vivevamo di riflesso quella stagione, e io più di riflesso degli altri, io che avevo ancora la testa costantemente al calcio (altra utopia irraggiungibile, ma questo è un altro discorso). Ma i ragionamenti, i discorsi, i tentativi, gli errori, le proposte arrivavano e noi le elaboravamo alla nostra maniera. Le esperienze di occupazioni tentate – dal teatrino, allo stabile dell’Aurelia -, il contatto con il livello regionale attraverso il periodico Comunicazione Antagonista, le prime feste di Rifondazione a cui partecipavi con l’idea della Rivoluzione (o più propriamente della Rivolta), non facevano altro che rimarcare la differenza fra la nostra precarietà e un livello di Antagonismo che auspicavamo e che guardavamo ammirati, con la costante tendenza a mitizzare. E gli esempi non mancavano: dalla giornata “solenne” del 10 settembre 1994 a Milano, a Amsterdam 1997, ai nostri caduti Sole, Baleno, a molti altri.
Oggi c’è una diversa consapevolezza. Il percorso politico dei Centri Sociali ha fallito in gran parte delle città italiane, mescolatosi con la politique politicienne o persi in una dimensione auto-assolutoria tendente al ghetto. Ma di quell’esperienza conservo allo stesso tempo un fascino estetico straordinario, ma anche una possibile riproducibilità, dovuta alla brillante stagione passata ed anche a un’elaborazione nuova, che attribuisce a questi luoghi un ruolo diverso, nell’epoca della crisi dirompente.
A Montignoso stiamo provando a mettere in atto qualcosa di straordinario, che rompa l’ordinarietà dei nostri stanchi luoghi di provincia. Proviamo a pensare la convivenza in una dimensione conflittuale, riempiendola di contenuti, proposte, idee. Proviamo a immaginare un diverso tipo di relazione e un’autoeducazione al fare politica. E’ faticoso e spesso il risultato non è all’altezza dell’aspettativa. Ma è un tentativo di risposta antagonista e abbiamo dalla nostra parte l’entusiasmo di generazioni diverse di ribelli che provano ad elaborare un terreno comune.
Una famosa canzone, icona delle occupazioni degli anni ’90, parlava di “amare un centro sociale”. Ho sempre pensato che fosse una sorta di licenza poetica e che quell’ “amare” non fosse da prendere alla lettera. Ebbene, in questo primo mese di vita della Casa Rossa Occupata, ho riscoperto l’intima connessione realizzata nel dar vita ad un luogo, nel determinarne il percorso, nel contribuire a farlo crescere: una sorta di amore ti lega all’esperienza che stai realizzando.
Noi ci siamo, con una storia alle spalle, ma con nuovi orizzonti davanti. L’unica cosa che non cambia mai, come abbiamo visto anche in questi giorni, è l’arroganza del potere. Ma ci faremo i conti.
Casa Rossa Occupata vive!
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