E’ in corso un’assemblea antifascista, presenti molti compagni di realtà politiche cittadine. Prende la parola una compagna. Il suo intervento è disturbato, denigrato, accompagnato da fastidiose risa. Dopotutto è una donna e qui si parla di antifascismo militante.
Le straordinarie compagne e sorelle di Femminismo a Sud, come tappa della loro campagna contro la violenza sulle donne hanno chiamato tutti quanti ad esprimersi su questo tema, con una frase che rappresenti questa infamità. Una presa di posizione collettiva contro un fenomeno drammaticamente diffuso e pericolosamente taciuto.
Riflettendo su questa iniziativa, pensavo a quanto il problema di genere sia spesso assente nelle nostre discussioni politiche, nelle nostre iniziative e a quanto sia, al contrario, strettamente intrecciato con l’antifascismo, la società che vorremmo e il mondo nuovo che auspichiamo. E all’interno di tutto questo, quanto la violenza sulle donne sia un tema cui gli uomini, anche i compagni, non considerino proprio terreno di mobilitazione e lotta politica.
Parto da una considerazione. La violenza sulle donne riguarda anche gli uomini e li riguarda in maniera feroce, pervasiva, piena. Ci costringe a farci domande, a interrogarci, su ciò che siamo come soggetti politici e sociali, sui contesti a cui apparteniamo, sulla nostra cultura di riferimento. E ci porta alla necessità di operare una denuncia forte: quella contro il modello culturale di maschio italiano, per il quale il soggetto femminile perde la propria soggettività e diviene oggetto di cui disporre a proprio piacimento.
Discutendo con un compagno antropologo, emergeva come nella nostra visione occidentale di culture altre come quella Afghana o Somala, facciamo presto a definire le loro pratiche aberranti contro la donna, come fenomeni culturali. Ma una riflessione simile sulla violenza di genere in Italia ci porta a liquidarla come devianza patologica individuale. Ebbene, un omicidio ogni tre giorni non è follia o patologia, è allarme sociale e culturale da affrontare con la massima urgenza e con tutta la dirompenza di cui siamo capaci.
Occorre una presa di coscienza collettiva anche fra noi uomini, soprattutto fra noi uomini. Perchè fino ad ora, escludendo qualche caso particolare, non siamo stati capaci di inserire questa tema nella nostra agenda di mobilitazione politica. E soprattutto non siamo stati capaci di evidenziare come l’atto violento in sè è parte (ovviamente la parte più grave e evidente) di un fenomeno complessivo nel quale, la figura femminile è colpita e denigrata in tutti i suoi aspetti. Nelle vicende di carnefici e vittime è immediato combattere per le vittime, meno immediato è interrogarsi sulla nostra vicinanza o meno con i carnefici.
Troppo spesso nelle realtà politiche in cui militiamo, i ruoli di potere decisionale, di autorevolezza culturale sono esclusivamente maschili. Troppo spesso il linguaggio di cui ci dotiamo è fortemente maschilista: Troppe volte riteniamo la questione di genere un elemento sovrastrutturale per il quale la mobilitazione è meno importante e meno affascinante. Ma non capiamo che anche questi sono elementi gravissimi di violenza, strettamente legati alla violenza fisica.
Dobbiamo spazzar via tutto questo. Dobbiamo farlo noi uomini e debbono farlo le donne. Insieme, operando strategie di rotture culturali con l’esistente, costruendo spazi di sperimentazione, provando ad incidere a tutti i livelli, da quello sociale a quello legislativo, da quello culturale a quello comunitario.
E’ un tema che ci riguarda, compagni, più forte che mai.